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Eppur si move: pronostici sulla mediazione

Articolo 31.12.2013 (Gianluca Denora)

Nel 2013 la giustizia italiana ha fatto una scommessa, il cui nome è “mediazione obbligatoria”. Non è un debutto; il meccanismo “risorge dalle ceneri” (come la Fenice) di un’abrogazione per illegittimità costituzionale, statuita dalla nota sentenza della Consulta 272/2012.

L’istituto riprende il suo corso all’insegna di una promessa: un miglior funzionamento della giustizia; lo strumento, per l’appunto, è l’obbligo di mediare le controversie che vertono su determinate materie (un catalogo chiuso).

Pronti, partenza, via: siamo nell’autunno 2013; si definiscono due canali: quello della giustizia tradizionale, radicata sul sistema del contenzioso; quello di nuovo conio, che fa della conciliazione uno strumento di composizione degli interessi contrapposti. Le strade non corrono parallele; per le materie selezionate dal legislatore il percorso è obbligato; step inderogabile è la mediazione, passaggio dalle ricadute positive sullo svolgimento del successivo giudizio eventuale (nel caso in cui la mediazione non riesca a definire in modo conclusivo la lite), ambiziosamente rivolto al possibile explicit della vertenza.

Accade pertanto che la seconda strada (giustizia conciliativa), presentata tradizionalmente – forse è il caso di utilizzare un provocatorio “anticamente” – in termini di alternativa (contrattuale per il tramite della transazione), diventa vincolo inderogabile per chi voglia chiedere giustizia in controversie aventi un particolare oggetto, selezionato dalla legge. Un costo di tempo e di denaro in questa tappa in più? Le promesse sono in direzione opposta, così come le attese: entrambe prefigurano scenari di efficienza. Ed infatti l’impianto del nuovo strumento si estende oltre il cerchio ben perimetrato di alcune, non poche, materie: la mediazione è strada percorribile da chiunque; ciascuno è libero di effettuarne l’opzione, proponendola alla “controparte” in luogo del guerreggiare nelle aule di giustizia; ciascuna coppia di contendenti può preferirne la fisiologia al patologico bailamme delle procedure tradizionali. Lo scenario non è marginale: anche l’Europa si interessa di mediazione e scommette su questo istituto nell’indirizzare i singoli Paesi attraverso la direttiva UE 2013/11/UE, cosiddetta direttiva sull’adr – risoluzione alternativa delle controversie – per i consumatori; si tratta proprio di regole per la mediazione non obbligatoria.

Due species dello stesso genere; lo slogan del procedimento mediativo è in ogni caso quello di “giustizia rapida e a basso costo”.

Ad oggi, tuttavia, non ci sono certezze negli approdi applicativi; le note attese si infrangono sul ritardato diffondersi dello strumento (inutile chiedersi dove e come si svolgano le controversie aventi ad oggetto le materie per le quali la mediazione è obbligatoria). Eppure i tempi del procedimento mediativo sono contingentati; lungaggini ed intralci sono fuori programma, nemmeno contemplati dalla normativa, decisamente assenti anche dalle indefettibili regolamentazioni integrative dei singoli organismi (attraverso lo strumento degli statuti). La sorte della lite, definendosi in tempi brevi, “lascia per strada” il fatto intollerabile del ritardo, davvero intollerabile perché l’attesa patita nell’adire il giudice (e riceverne la decisione) è di per sé una forma di pregiudizio sostanziale per l’individuo, come dimostra l’insostenibile peso dei rallentamenti sulla salvaguardia degli interessi in causa. Netto il beneficio per le parti nel caso di un risparmio di tempo, benvenga la celerità anche se che porta con sé un pregiudizio in termini di risultati: il vincitore non massimizza la vittoria e il perdente non minimizza la sconfitta. Mettersi d’accordo, del resto, significa proprio sostituire alla logica strenuamente individualistica una forma di compromesso, una rinuncia a qualcosa per ottenere il risultato della pacificazione del conflitto e, forse ancor prima, la parziale, ma rapida e certa, soddisfazione delle proprie pretese.

Vecchie promesse cedono il passo, e condividono le sorti, di nuove promesse. Se infatti l’ideazione dell’istituto sembra calata nel contesto della conflittualità tra privati, in verità non sono ancora ben definiti i suoi orizzonti di sviluppo. Nonostante le sacche di resistenza di molta parte della classe forense (premessa di una possibile contrazione applicativa o de lege ferenda) si annunciano nuovi ambiti di espansione della giustizia “concordata”. In particolare, l’innesto negli apparati delle autonomie locali promette grandi risultati. Diventa facile individuare le nuove ricadute: un’amministrazione che segue il percorso mediatizio realizzerà delle economie di grande utilità nella prospettiva dell’interesse collettivo; le prerogative generali dello strumento conciliativo daranno i risultati più auspicabili anche sul piano di rapidità e snellezza delle procedure.

In concreto, peraltro, è stato mosso il primo passo in questa direzione: la resistenza culturale all‘ingresso della mediazione nella gestione della cosa pubblica è nel tempo venuta meno, al punto che oggi la Corte dei conti sottolinea l’esigenza che l’ente pubblico acceda a una giustizia conciliativa «sia per evitare i maggiori costi relativi al contenzioso civile (…), sia per rimediare al notevole danno di immagine subito dall’azienda a causa del clamore mediatico suscitato dalla particolarità della vicenda» (Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione Siciliana, n. 2719, depositata il 23 Luglio 2013).

Il settore pubblico, per questa via, può diventare protagonista di un modello conciliativo esemplare; in esso l’ispirazione all’interesse collettivo smorza l’acredine della ricerca di una sopraffazione dell’altro e muove la composizione del conflitto verso l’incontro delle parti, che nel linguaggio del legislatore bene si esprime nella semplice quanto efficace parola “accordo”.

(Altalex, 31 dicembre 2013. Articolo di Gianluca Denora)

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