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futuri praticanti avvocati lavoreranno gratis per legge

di Gian Antonio Stella

«L’ imperativo categorico è dare un futuro ai giovani», ha tuonato paterno Renato Schifani. Detto fatto, l’unica legge messa in calendario dal Senato ormai agli sgoccioli è la riforma della disciplina forense cara a un sesto dei senatori (presidente compreso) di mestiere avvocati. Riforma che consente di imporre ai praticanti (laureati) di lavorare gratis come i «ragazzi-spazzola» dei barbieri di una volta.

Spiegano a palazzo Madama che per carità, alla larga dalle malizie, è tutto normale. Certo, il tempo è tiranno e, visto che dopo il varo della legge di stabilità Mario Monti darà le dimissioni e le Camere saranno sciolte, non ci sono proprio i giorni necessari (ahinoi!) per fare tante cose.

Troppo tardi per approvare la soppressione delle province. Troppo tardi per varare le misure alternative al carcere care alla Guardasigilli Paola Severino. Troppo tardi per legge sul pareggio di bilancio che secondo Vittorio Grilli sarebbe stata «essenziale» e «parte integrante del processo di riforma e messa in sicurezza dei conti del Paese».

Troppo tardi per mandare in porto perfino certe leggine piccole piccole sulle quali si dicono tutti d’accordo come il raddoppio delle pene per i trafficanti di opere d’arte che finalmente consentirebbe di mettere le manette (oggi escluse) a chi rubasse la Pietà di Michelangelo o la Venere del Botticelli.

Troppo tardi. Restava giusto il tempo, prima dello scioglimento del Senato, per far passare una sola legge. E dovendo scegliere che cosa ha scelto la conferenza dei Capigruppo, tra i quali non mancano gli avvocati? La «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense», scritta dalla vecchia maggioranza PdL-Lega su ispirazione del Consiglio Nazionale Forense.

Che arriva in aula con grande soddisfazione del presidente della commissione Giustizia Filippo Berselli (mestiere? Avvocato) dopo la bocciatura di tutti i 160 emendamenti presentati dalla (vecchia) opposizione. Di fatto, ha scritto Il Sole 24 Ore , la riforma «riporta per molti versi le lancette della professione legale a prima degli interventi “liberalizzatori” di riordino».

Un esempio? «I parametri, che nel linguaggio liberalizzatore hanno sostituito le vecchie tariffe, in realtà tornano a somigliare molto al progenitore, considerato che vengono “indicati” a cadenza biennale dal decreto ministeriale “su proposta del Consiglio nazionale forense”».

Gli aspetti più contrastati sono diversi. C’è chi contesta il divieto ai non iscritti all’albo degli avvocati di fornire consulenza extragiudiziale nelle materie giuridiche, anche se sono laureati in legge, come fossero condannati a non usare le conoscenze giuridiche acquisite all’università.

Chi contesta la delega al Governo perché conservi il divieto a costituire studi legali in forma di società di capitali (su modello di quelli americani o inglesi) salvo che tutti i soci siano iscritti all’albo degli avvocati. Chi ancora contesta il divieto di pubblicità. I punti più ammiccanti nei confronti dei «vecchi» e più ostili ai giovani, però, sono tre.

Il primo obbliga gli avvocati a un continuo aggiornamento professionale ad eccezione di quelli che hanno più di 25 anni di iscrizione all’Albo. Come se chi ha smesso da più tempo di studiare avesse meno bisogno di star al passo coi nuovi testi e le nuove sentenze di chi è di studi più recenti.

Peggio: sono esentati gli avvocati politici con la motivazione che si aggiornerebbero automaticamente grazie a quanto fanno. Una tesi assurda, contro la quale inutilmente si è battuto Pietro Ichino: «Quello che si chiede all’avvocato è conoscere tutte le novità giurisprudenziali, come l’ultima sentenza di Cassazione, magari non ancora pubblicata su una rivista e che, però, può servire per vincere la causa. La novità legislativa incide su questo onere di aggiornamento in misura minima. Non riesco a capire come si possa sostenere decentemente che un parlamentare si aggiorni sulla giurisprudenza e sulla dottrina per il solo fatto di sedere in un’aula delle camere».

Più ancora, però, Ichino e altri sono indignati per il comma 11 dell’articolo 41. Il quale dice che «ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato» (come a dire: facciano pure, loro, tanto sono soldi pubblici) «decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato».

Traduzione: il titolare di uno studio può pagare un obolo al giovane praticante avvocato che sgobba per lui solo dopo il primo semestre. Non è obbligatorio: primi sei mesi gratis, poi è un rimborso facoltativo. Quanto all’accenno all’«utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio» che vuol dire: che se il praticante fa una telefonata gli va detratta? La sedia su cui siede va detratta?

Peggio ancora, denuncia Dario Greco, il presidente dell’Aiga, l’associazione dei giovani avvocati: il riconoscimento di quel rimborso facoltativo dopo i primi sei mesi «cessa al termine del periodo di pratica lasciando completamente scoperti quei giovani che attendono di fare l’esame d’avvocato oppure che l’hanno superato, ma che continuano a frequentare lo studio ed a lavorare a tempo pieno per il loro dominus.

Si tratta di rapporti di collaborazione che di autonomo non hanno nulla e che coinvolgono un elevatissimo numero di giovani di ogni regione italiana, i quali, si trovano costretti a rimanere in tali studi alle sostanziali “dipendenze” dei loro domini, senza forma di tutela alcuna, e senza il riconoscimento di un compenso che sia effettivamente commisurato all’apporto che il giovane riesce a dare allo studio».

Un meccanismo, accusano i giovani legali, che «impedisce ogni prospettiva di crescita, di progressione di carriera del giovane, oltre a costituire una vera e propria emergenza sociale nei confronti di quei giovani che non riescono a raggiungere la soglia dei mille euro al mese».

Domanda: che sia una coincidenza che una legge così venga salvata in «zona Cesarini», a discapito di ogni altro provvedimento destinato a spirare insieme con la legislatura, da un Palazzo Madama presieduto da un avvocato nel quale gli avvocati sono addirittura 50 su poco più di trecento senatori?


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