Il primo incontro di mediazione

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Il primo incontro di mediazione ex DLgs 28/10 e la proposta inaudita altera parte

di Dante Leonardi (Avvocato e Mediatore Civile) -Il presente lavoro mira a rispondere alla seguente domanda: alla luce delle novità legislative introdotte con il cd “decreto del fare”, è giuridicamente possibile per il mediatore formulare una proposta in assenza di una parte o se tale parti dichiari espressamente, al termine del primo incontro, di non voler proseguire il procedimento di mediazione?
Preliminarmente occorre esaminare la struttura del nuovo primo incontro di mediazione.

Secondo la norma introdotta con il cd “decreto del fare” (art. 8, primo comma), il mediatore, durante il primo incontro, deve, preliminarmente, chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. All’esito, le stesse parti, unitamente ai loro avvocati ed allo stesso mediatore, devono decidere se procedere o meno.
Precisamente la norma afferma: “Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.
Se entrambe le parti sono presenti e ritengono sin dall’inizio di dover in effetti proseguire con la mediazione, nulla quaestio: è inutile insistere oltre, l’organismo incardina la mediazione e si fissa un nuovo incontro. Ma la pratica del tavolo di mediazione suggerisce che tale evento si verifica di rado. Molto spesso il mediatore ha necessità non solo di spiegare in astratto pregi e virtù del procedimento, ma di scendere in concreto per poter comprendere e far comprendere alle parti se in effetti quella determinata controversia sia “mediabile” o meno.
In realtà, la valutazione sulla mediabilità della controversia non può essere successiva ad una semplice informativa generica sulle caratteristiche del procedimento, né essere rimessa alla mera volontà delle parti.
Per quanto riguarda l’informativa, ricordiamo infatti che i difensori – oggi mediatori di diritto – hanno già fornito alle parti le informazioni necessarie con l’obbligo di informativa previsto dall’art. 4, comma 3, preliminare all’accettazione del patrocinio. Si tratterebbe di una reiterazione totalmente priva di senso. Perché la disposizione di cui all’art. 8 primo comma abbia un senso compiuto, è necessario non solo che l’oggetto dell’informativa sia, almeno parzialmente, differente, ma che l’attività svolta in mediazione non sia una semplice informativa ma vada decisamente più a fondo.
Siamo in un procedimento tendenzialmente a contraddittorio pieno, per giunta garantito da inutilizzabilità di atti e informazioni e da riservatezza: che senso ha limitarsi ad un semplice riepilogo di quanto ha già spiegato in studio il proprio avvocato?
In un procedimento di mediazione tradizionale, al di fuori dei canoni ermeneutici del DLgs 28/10, c’è sempre una fase “maieutica”, in cui le parti, aiutate dal mediatore, fanno emergere interessi, motivi di lite, rapporti e tutto quanto può essere anche lontanamente inerente alla vicenda, per poi, in un secondo momento, passare alle ipotesi “ricostruttive”, prodromiche all’accordo finale.
È bene, nel caso le parti non siano presenti o concordi sin dall’inizio nell’intraprendere un percorso di mediazione, iniziare subito questa fase maieutica e posticipare la valutazione sulla mediabilità della controversia al suo esito.
Prima di esaminare quali debbano essere le caratteristiche che rendono “mediabile” una controversia, occorre illustrare perché la valutazione dell’art. 8, primo comma, non può essere meramente potestativa.
La norma va infatti letta in contrapposizione al comma 4-bis del medesimo articolo il quale, in caso di assenza senza giustificato motivo di una parte, prevede una serie di conseguenze economiche e processuali.
E allora, se l’assenza dev’essere motivata per non avere effetti negativi, a maggior ragione il rifiuto a proseguire non può essere immotivato o motivato ingiustamente. Altrimenti si porrebbe in essere una condotta elusiva di norma imperativa (il comma 4-bis, appunto). Pertanto, il rifiuto immotivato o meramente potestativo a proseguire deve essere in tutto equiparato alla mancata comparizione senza giustificato motivo.
A questo punto, occorre chiedersi, da un lato, quando sia giustificata la mancata comparizione o il rifiuto a proseguire e, dall’altro, quali siano le caratteristiche che rendono “mediabile” una controversia.
A ben vedere, la risposta ad una domanda può essere la conseguenza dell’altra: il rifiuto è giustificato se la controversia non è mediabile e viceversa, il rifiuto è ingiustificato se, invece, la controversia presenta tutte le caratteristiche per essere utilmente mediata.
E quali sarebbero tali caratteristiche?
Ci soccorre, in quest’analisi, il secondo comma dell’art. 5 il quale, occupandosi della mediazione cd “demandata”, dispone: “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione”.
Cosa ci impedisce di ritenere che tali parametri non possano essere valutati da mediatore e parti all’esito della “fase maieutica” di cui innanzi?
Abbiamo chiarito che il primo incontro di mediazione non è una semplice informativa ma deve constare di un esame delle posizioni delle parti e di eventuali documenti esibiti in sede di mediazione. All’esito di tale esame il mediatore, unitamente alle parti presenti, può utilizzare quegli stessi parametri indicati dall’art. 5, secondo comma per valutare l’utilità, in concreto, della successiva fase “ricostruttiva” del procedimento di mediazione.
A quel punto, una volta ritenuta “mediabile” la controversia, le parti presenti (ma anche quelle eventualmente assenti), saranno poste nell’alternativa se continuare il procedimento di mediazione oppure ricorrere ad un rifiuto da ritenersi ingiustificato per i motivi innanzi detti.
Ovviamente la “ingiustificatezza” del rifiuto può essere indotta dal mediatore ma sarà compiutamente valutata solo in sede giudiziale, laddove il giudice verrà posto dinanzi a tre possibili alternative: disattendere la valutazione del mediatore, e ritenere giustificato il rifiuto (e conseguentemente non mediabile la controversia), oppure ritenere corretta la valutazione in mediazione e conseguentemente o applicare le sanzioni previste dal comma 4-bis o rimettere le parti in mediazione per il prosieguo del procedimento nell’esperimento della fase che abbiamo chiamato ricostruttiva.
In tal senso, Trib. Firenze 19/03/2014 ha ritenuto che, nella mediazione demandata, la valutazione circa la mediabilità della controversia sia stata in effetti già compiuta dal giudice a quo e pertanto la mediazione debba essere svolta direttamente nel merito, con la presenza obbligatoria delle parti.
Ed allora, il nuovo primo incontro dovrebbe essere letto nel seguente modo.
La mediazione inizia con la proposizione della domanda. Da questo momento in poi, l’intera procedura è assistita dai caratteri di riservatezza ed inutilizzabilità di atti e dichiarazioni prodotte.
All’inizio del primo incontro si colloca una fase “programmatica” che sarebbe meglio definire “preliminare”, in cui il mediatore, informa le parti della caratteristiche del procedimento di mediazione, mentre le parti informano il mediatore circa le caratteristiche della controversia, con particolare riguardo alla sua natura, ai rapporti tra loro ed agli elementi che s’intendono far valere, eventualmente utilizzando le sessioni separate per non comunicare immediatamente alla controparte informazioni che s’intendono mantenere assolutamente riservate.
All’esito di tale fase, parti e mediatore valutano la mediabilità della controversia e decidono se proseguire o meno nel procedimento di mediazione.
Incidentalmente, resta a questo punto incomprensibile il disposto di cui al comma 5-ter dell’art. 17 che dispone che “Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
La fase “maieutica”, infatti, può essere quella più probante: il mediatore deve acquisire la fiducia delle parti presenti e deve tirar fuori le ragioni sottese al conflitto, gli interessi inconfessati, i rapporti nascosti. Una volta messo tutto sul tavolo, si può capire se c’è o meno la possibilità di ricostruire o se serve una decisione che, dal latino de e caedere significa “tagliar via”, ovvero rimettere ad altri l’opportunità di risolvere la lite d’imperio, dando ragione ad una parte e torto all’altra ed eliminando per sempre la possibilità di recuperare il rapporto.
Proprio tale fase maieutica, il legislatore del “fare” ha ritenuto che debba essere svolta “pro bono” dagli organismi di mediazione, dimostrando in ciò scarsa sensibilità. Ma si confida che tale aspetto possa essere presto modificato.
L’introduzione di tale procedimento nell’ordinamento e la previsione della condizione di procedibilità, in realtà, mirano ad uno scopo “rieducativo” di parti e difensori. Nei primi commenti al DLgs 28/10 si faceva spesso riferimento alle cinture di sicurezza o al casco per i motoveicoli: una legge per imporre comportamenti virtuosi.
In tal senso, l’introduzione del procedimento di mediazione dovrebbe costringere parti e difensori a ripensare alle ragioni del conflitto ed a valutare attentamente se il giudizio sia in effetti l’unica soluzione possibile o se, aiutati da un professionista competente, possano riuscire a riprendere a comunicare e ad avviarsi verso una soluzione concordata e non eteroimposta.

Detto questo, andiamo ora ad occuparci della questione dalla quale il presente lavoro prende le mosse.
Che succede se, all’esito del primo incontro, nonostante l’assenza o l’espresso rifiuto di una parte, sia comunque possibile una valutazione positiva della “mediabilità” della controversia?
Se infatti all’esito della fase “maieutica” si devono considerare fattori quali natura della controversia, documentazione dei fatti dedotti e comportamento delle parti, può verificarsi nella pratica della mediazione che tali elementi possano emergere senza un effettivo confronto con una delle parti del potenziale giudizio.
La stessa fase maieutica potrebbe in effetti svolgersi “sulla carta”, ovvero senza un effettivo contraddittorio, grazie ad informazioni raccolte aliunde dal mediatore o dalla stessa controparte.
In ultimo, il rifiuto immotivato all’esito di una fase maieutica piena, potrebbe ancor più indurre il mediatore ad “andare avanti”, specie se l’altra parte glielo dovesse espressamente richiedere.
E l’unico modo possibile di procedere senza la presenza di una parte è quello di richiedere al mediatore la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 11, primo comma.
Si precisa che, in caso di mancata comparizione di una parte, tale possibilità è espressamente prevista dal DM 145/11 che ha modificato, sul punto, l’art. 7, quinto comma, del DM 180/10 e non è stato più modificato. A maggior ragione deve essere consentita, nella nuova formulazione dell’art. 8, all’esito di una valutazione di mediabilità della controversia che veda una parte convinta di dover procedere nella mediazione e l’altra contrapporre un rifiuto meramente potestativo o comunque non giustificato.
La proposta formulata ex art. 11 può essere, essenzialmente, di due tipi: aggiudicativa, che ha funzione solutoria, costituendo, sostanzialmente una decisione allo stato degli atti (in tal caso, vista la sua natura decisoria, la proposta va motivata); oppure facilitativa, che, in effetti, più che dare una soluzione al problema giuridico, cerca di indicare altre strade, invitando le parti a guardare la controversia da punti di vista differenti.
La proposta aggiudicativa può essere valutata dal giudice ad quem per l’applicazione delle sanzioni ex art. 13; quella facilitativa, invece, solitamente è una buona base per riportare le parti al tavolo della mediazione e ricominciare a discutere di soluzioni condivise.
In ogni caso, lo scopo ultimo di qualsiasi proposta è l’accettazione piena da entrambe le parti.
Per tale motivo, con riferimento ai parametri della mediabilità innanzi individuati, il mediatore deve astenersi dal formulare una proposta se non possiede sufficienti elementi di analisi: se infatti il momento maieutico non è pieno e completo, c’è il rischio di proporre soluzioni non aderenti alla realtà o frutto di una visione parziale o distorta. Comunque destinate a cadere nel vuoto.
A questo proposito, diventa molto interessante la mediazione con importanti caratteristiche “tecniche” o comunque la valutazione degli aspetti tecnici della controversia.
La riduzione del conflitto a questioni tecniche ed a parametri oggettivi condivisi o comunque condivisibili serve al mediatore da un lato per eliminare aspetti soggettivi patologici e dall’altro per arrivare alla formulazione di proposte più facilmente obiettive ed accettabili.
In tal senso, si dovrà tener conto di criteri scientifici, tecnici o anche di parametri giurisprudenziali pacifici o comunemente accettati.
D’altra parte, l’intervento del tecnico in mediazione (sia in caso di assenza di una parte che alla presenza di entrambe), consente una valutazione molto più ampia di quella propria di un CTU chiamato nel corso di un giudizio o di un ATP: il tecnico non è limitato dai quesiti individuati dal giudice e può facilmente proporre soluzioni tecniche non convenzionali (facilitative). È capitato, ad esempio, in materia di servitù di scolo delle acque o di passaggio di elettrodotto che i tecnici interpellati individuassero soluzioni architettoniche e percorsi cui i giuristi non avrebbero minimamente pensato, presi dalla necessità di risolvere i rapporti giuridici tra le parti in conflitto.
In qualche caso, peraltro, è anche capitato che la valutazione tecnica abbia consentito al mediatore di comunicare alla parte istante che non vi erano i requisiti tali da poter formulare una valida proposta: o per la mancanza del nesso di causalità (in caso di colpa medica) o per la mancanza di elementi probatori del credito (in un caso di responsabilità contrattuale bancaria). In questi casi la mediazione senza una parte si è risolta in una sorta di pre trial che comunque ha consentito alla parte istante di evitare spese e lungaggini di un processo tradizionale.
Ancora, il “parere tecnico” in mediazione ha recentemente segnato un importante punto a favore: una recentissima pronuncia del Tribunale di Roma (sez. XIII, dott. Massimo Moriconi del 17/03/2014) ha ritenuto che detto parere utilizzato nel corso di un procedimento di mediazione non solo non è assistito dai requisiti di inutilizzabilità e segretezza – non trattandosi di una dichiarazione di parte – ma può essere utilizzato in giudizio come base per una proposta ex art. 186-bis Cpc o come “prova atipica” dello stesso processo civile.
Ed allora, corollario di questa pronuncia è che la parte della mediazione deve valutare l’opportunità o meno di rifiutare un accordo, fondato su di un parere tecnico, in un momento in cui essa può interloquire su di un piano di parità con il mediatore e la propria controparte o correre il rischio di differire tale valutazione ad un momento in cui entra in gioco un soggetto terzo e sovraordinato, con una potestà decisoria che il mediatore non possiede.

In conclusione, se le parti sono d’accordo a proseguire sin dall’inizio, il mediatore si limita ad un’informativa sommaria e rinvia ad un successivo incontro per l’inizio della procedura di mediazione “a cognizione piena”; se invece le parti appaiono dubbiose all’esito della mera informativa, il mediatore ha il dovere di andare a fondo già nel primo incontro, compiendo quell’attività “maieutica” di cui innanzi; all’esito di tale attività, se soltanto una parte intende procedere, il mediatore deve valutare la “mediabilità” della controversia, tenendo presente le caratteristiche individuate dal secondo comma dell’art. 5 (natura, completezza delle informazioni e rapporti tra le parti), all’esito, formula la proposta o rilascia verbale negativo. Questo sia in caso di assenza ab initio della parte, sia in caso di espresso rifiuto da ritenersi immotivato o ingiustificato.
All’esito della proposta, come detto, la parte assente o ritiratasi può decidere di rientrare, formulando una controproposta, di accettare la proposta del mediatore o di rifiutarla, andando (o resistendo) in giudizio. In tale ultimo caso, il giudice potrà valutare le ragioni sottese al rifiuto e ritenerle o meno fondate con tutta una serie di conseguenze processuali e sulla condanna al pagamento delle spese legali. Se nel corso della mediazione si è utilizzato un parere tecnico, tale strumento potrà entrare nel successivo giudizio come prova atipica o anche come base su cui fondare una proposta del giudice ex art. 186-bis Cpc.

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