Mediazione e Legge Pinto

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Mediazione e Legge Pinto

 

(di avv. Stefano Papa) – La legge Pinto e le sue conseguenze sul sistema finanziario e giudiziario italiano.

 

La ragionevole durata dei processi è uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto, inserito tra le prime previsioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[1].

Il nostro Paese ha assolto tale obbligo sempre con enormi difficoltà, tant’è che si è visto condannare più volte da parte della Corte europea dei diritti umani che, in assenza di un’adeguata normativa nazionale, ha dovuto garantire un equo ristoro alle vittime per il danno subìto dal ritardo della giustizia, sottraendo risorse per investimenti che, favorendo il miglior funzionamento della macchina giudiziaria, avrebbero potuto risolvere il problema alla radice[2].

Tale situazione ha portato alla paralisi delle attività della Corte di Strasburgo, che si è trovata costretta a intimare al nostro Paese l’adozione di strumenti legislativi adeguati, allo scopo di riportare nell’ordinamento italiano cause che dovevano effettivamente essere risolte anzitutto nell’ordinamento interno.

Il Legislatore italiano per limitare il numero di ricorsi che venivano presentati alla Corte europea contro l’Italia, per violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha introdotto la Legge Pinto.

Fin dalla sua approvazione, la Legge-Pinto ha, però, determinato delle conseguenze non trascurabili, non solo per quanto concerne, specificatamente, l’aspetto giustizia, ma anche sotto un profilo finanziario[3].

Nonostante la Corte di Giustizia Europea richiedesse la predisposizione di uno strumento che, oltre a garantire il risarcimento, rendesse effettiva la tutela del diritto all’equo processo e, quindi, chiedendo un rimedio immediato alla situazione contingente, che consentisse, in definitiva, di “rispedire al mittente” il contenzioso già incardinato a Strasburgo,la risposta del legislatore italiano è stata solo parziale[4].

Infatti, mediante l’adozione della legge n. 89 del 24 marzo 2001[5], l’Italia ha preferito introdurre nel nostro sistema uno strumento meramente indennitario che non è però intervenuto sulle cause sistemiche del problema, i cui effetti negativi vanno oltre quelle che sono le censure in sede europea.

La parzialità della legge Pinto, unita ad alcune criticità applicative, ha messo in evidenza il rischio di ineffettività dello strumento, che avrebbe nuovamente riportato una quantità di ricorsi di fronte alla Corte di Strasburgo, riaprendo così un circuito vizioso di censure e di condanne.

Infatti, i rimedi offerti dalla Legge Pinto, ossia l’inserimento di un ricorso interno per la valutazione dell’irragionevole durata del processo, hanno determinato un ulteriore appesantimento all’interno di un sistema già incapace di gestire in modo adeguato i ricorsi ordinari.

Le Corti d’Appello, a cui tale giudizio di accertamento è stato devoluto, già oberate dei processi ordinari,  si son viste appesantire le liste dei ricorsi, determinando ciò un ritardo nelle statuizioni sull’irragionevole durata dei processi[6].

Infatti, dai dati emersi dalla relazione del Presidente Carbone, le Corti di Appello hanno definito, solo nel corso del 2009, 11.343 procedimenti per Legge Pinto, con un incremento rispetto all’anno precedente che è, in media, del 30,8%[7], contribuendo ciò a rallentare il corso ordinario della giustizia, procedimenti che continueranno a incrementarsi in maniera esponenziale, sottraendo sempre più risorse al bilancio pubblico.

I riflessi negativi della Legge Pinto non si sono avuti solo sotto il profilo giustizia, ma anche sotto l’aspetto finanziario. Sempre nella relazione del Presidente Carbone si è parlato, anche,  dei “gravissimi e assurdi costi della Legge Pinto”. Per il solo anno 2009 sono stati già contratti debiti risarcitori per altri 31 milioni di debiti.

Quindi, a più di dieci anni di applicazione della Legge Pinto e al di là di qualche intervento del legislatore a colpi di legislazione processuale, non si può non prendere atto delle sue conseguenze negative.

La Legge Pinto non solo non ha velocizzato i processi, ma ha comportato allo Stato “gravissimi e assurdi costi” e ha dato vita ad un numero incontrollabile e sempre crescente di richieste di indennizzo.

Il Consiglio d’Europa ha invitato, pertanto,  l’Italia ad adottare “una strategia a medio e lungo termine” per risolvere “il problema strutturale” della durata dei processi “che esige un forte impegno politico”. Dovrebbe allora adottarsi un vero e proprio Piano per la durata ragionevole che impegni tutti gli operatori del diritto e che prenda in considerazione, in modo organico, ogni fattore che incide sui tempi del processo. Il Piano deve mirare a rendere uniformi, da un lato, l’entità complessiva della domanda di procedimenti giudiziari e, dall’altro, la capacità dell’apparato di soddisfare le richieste nei tempi.

In tale contesto la legge Pinto è valsa a creare l’illusoria convinzione che, all’inaccettabile lunghezza della giustizia civile, si potesse sopperire con una estesa monetarizzazione[8].

Non a caso in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, e nella densa relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011, si è parlato di “gravissimi e assurdi costi della Legge-Pinto”[9].

Da qui l’indiscussa esigenza di introdurre nuovi rimedi deflattivi del contenzioso in ambito anzitutto civile.

2. Modifiche alla legge Pinto ad opera del D.L. n.83/2012 .

Con l’intento di porre un freno alle richieste risarcitorie è intervenuto il Dl. 22 giugno 2012 n. 83, contenente “misure urgenti per la crescita del paese” (c.d. decreto sviluppo del governo Monti), il quale, all’articolo 55,  ha apportato significative modifiche, in materia di giustizia, alla  legge Pinto.

Le novità introdotte dalla normativa sono significative ed attengono a diversi aspetti.

Viene riformulato e l’articolo 2, comma secondo, della legge 89/2001 viene imposto al giudice del procedimento di accertare la complessità del caso e il comportamento delle parti del giudizio in cui si è ecceduta la ragionevole durata. Si può presumere che tale accertamento debba essere condotto al fine di valutare se c’è stata violazione della ragionevole durata del procedimento. Tale obbligo, che viene imposto al giudice in merito alla verifica della sussistenza della eventuale violazione, si collega a quanto previsto all’articolo 2 bis e 2, comma secondo quinquies.

L’articolo 2 bis stabilisce l’esatta quantificazione dell’indennizzo che spetta alla parte. Nel determinare tale ammontare il giudice dovrà tenere conto del comportamento delle parti e del valore della controversia.

La riforma introduce, infatti, parametri fissi sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio : il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, e che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa. Invece il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità)[10].

E’ possibile, inoltre, determinare un ammontare superiore, purché non superi il valore della causa.

L’articolo 2, comma secondo quinquies, stabilisce invece alcuni casi nei quali viene espressamente escluso l’indennizzo. Si tratta di casi in relazione ai quali il Legislatore ritiene che alla parte debbano essere attribuite alcune responsabilità nella lunghezza del giudizio.

Un ulteriore elemento di novità attiene alla precisa individuazione, contenuta nell’articolo 2, comma 2 bis, dei tempi il cui sforamento determina violazione del principio della ragionevole durata.

Inoltre, il nuovo articolo 3 modifica radicalmente la procedura da attivare per chiedere ed ottenere l’indennizzo. A decidere è un giudice monocratico che, inaudita altera parte, emette un decreto su domanda di ingiunzione di pagamento presentata ad istanza di parte. Contro il decreto è possibile fare opposizione aprendo così un giudizio che comunque è destinato a concludersi in pochi mesi.

L’articolo 4 prevede invece un termine di proponibilità. La domanda per la riparazione può essere posta solo entro 6 mesi dal momento in cui la decisione che definisce il procedimento è divenuta definitiva.

Infine, significativa novità attiene anche a quanto previsto dall’articolo 5 quater che stabilisce che,qualora  la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.

Fino a questo momento la situazione è stata del tutto diversa: un giudizio che deve decidere sulla fondatezza del ricorso e sulla liquidazione degli importi si svolge davanti alla Corte d’appello in composizione collegiale, con instaurazione del contraddittorio nei confronti dell’amministrazione responsabile e svolgimento attraverso una pluralità di udienze.

Invece, la creazione di un procedimento così come descritto permetterà uno svolgimento diverso che prende avvio con la parte che presenta ricorso al presidente della Corte d’appello competente, quest’ultimo che designa un giudice competente alla trattazione della causa che, a sua volta, deciderà con decreto sulla base dei documenti presentati dalla parte. Il decreto poi potrà essere oggetto di impugnazione in tempi stretti.

Si salvaguarderebbe in questo modo la possibilità di una tutela giurisdizionale rafforzata, visto che sull’impugnazione deciderà, ma solo a quel punto, la Corte d’appello in versione collegiale.

3. La nuova mediazione e la Legge Pinto.

Con l’intento di ridurre il contenzioso, con d. lgs. 4 marzo 2010, n.28 (pubblicato nella G.U. n.53del 5 marzo 2010) sulla mediazione in materia civile e commerciale, viene introdotto nell’ordinamento italiano il procedimento di composizione stragiudiziale delle controversie vertenti sui diritti disponibili ad opera delle parti. Si esercita in tal modo la delega conferita al Governo dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009 e si attua la direttiva dell’Unione europea n. 52 del 2008.

La mediazione finalizzata alla conciliazione di cui al d.lgs. 28/2010 presenta, però, non poche differenze rispetto alla mediazione disciplinata dalla direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio. Infatti, la direttiva, con specifico riguardo alle controversie transfrontaliere, delinea una mediazione tipicamente facilitativa, che prevede l’attribuzione al mediatore di un low profile: secondo le definizioni contenute nell’art. 3 della direttiva, «per “mediazione” si intende un procedimento strutturato, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore»; e «per “mediatore” si intende qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo efficace, imparziale e competente, indipendentemente dalla denominazione o dalla professione di questo terzo nello Stato membro interessato e dalle modalità con cui è stato nominato o invitato a condurre la mediazione». Il d.lgs. n. 28/2010, per contro, disegna un modello di mediazione che ha i propri perni nell’obbligatorietà imposta in talune materie, nel potere-dovere del mediatore di formulare la proposta conciliativa e nelle conseguenze favorevoli della sua accettazione e sfavorevoli del suo rifiuto[11].

Tale riforma ha avuto come obiettivo principale quello di ridurre il flusso in ingresso di nuove cause nel sistema giustizia, offrendo al cittadino uno strumento più semplice e veloce con tempi e costi certi, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, mirando, pertanto, a deflazionare il contenzioso civile con lo smaltimento in sede stragiudiziale di un elevato numero di controversie, mediante un accordo che renda inutile l’accesso alla giurisdizione o consenta di porre fine, per cessazione della materia del contendere, ad un giudizio in corso.

Tra gli obiettivi di politica del diritto che si è posto il Legislatore con il d. lgs. 28/2010 ci sono, in primo luogo, una trasformazione culturale del Paese, volta ad una reale tutela degli interessi dei soggetti che si rivolgono allo Stato per ottenere giustizia, operando una scelta tra i conflitti economici, sociali e familiari più frequentemente trattati nelle aule giudiziarie, per i quali l’esperienza ha dimostrato una carente risposta giudiziale alla soluzione desiderata dal soggetto leso o presunto tale; in secondo luogo, una consistente riduzione del debito giudiziario verso la collettività e del carico di lavoro della magistratura.

Si pongono così le basi per consentire alla cultura dell’alternative dispute resolution di diffondersianche nel nostro Paese[12].

Con particolare riferimento al rapporto tra mediazione e Legge Pinto,  una fondamentale novità e limitazione introdotta dal decreto Monti  al riconoscimento dell’equa riparazione, per violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è quella prevista dall’art. 2 bis lett. c “ nel caso di cui all’art. 13, primo comma, secondo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n.18”.

L’art. 13 del D.Lgs n.28/2010 prevede che: “Quando il provvedimento chedefinisce il giudizio corrisponde
interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la
ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha
rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla
formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese
sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo,
nonche’ al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di
un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato
dovuto. Resta ferma l’applicabilita’ degli articoli 92 e 96 del
codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma
si applicano altresi’ alle spese per l’indennita’ corrisposta al
mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8,
comma 4…”.

In base alla riforma apportata dall’art. 55 del decreto legge del 22 giugno 2012, viene escluso il riconoscimento dell’equa riparazione ogni qualvolta il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa avanzata dal mediatore, ciò  al fine di ridurre i costi per lo Stato.

Ne deriva, pertanto, che, anche quando nel giudizio la parte ricorrente è risultata vincitrice, essa non ha ugualmente diritto ad ottenere l’indennizzo previsto dalla Legge Pinto, qualora le sia stata negata la ripetizione delle spese per non aver accettato la proposta di accordo formulata nel procedimento di mediazione, proposta che nella sentenza, che ha definito il giudizio, si è rivelata non inferiore alla decisione non adottata[13].

3.1 Risarcimento per irragionevole durata del processo: la mediazione interrompe i termini

Oltre all’aspetto, riguardante l’indennizzo, un’altra questione attinente il rapporto tra mediazione e legge Pinto è quella che riguarda i termini di prescrizione e decadenza dell’azione di equo indennizzo.

Dal momento che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto,  ormai transigibile, quindi soggette a mediazione, anche le azioni di equa riparazione che si svolgano dinanzi ad essa, la data della domanda di mediazione sostituisce quella di equo indennizzo, al fine di escludere ogni decadenza dall’azione e, se intervenuta nel semestre dalla sentenza definitiva che ha chiuso il processo presupposto, impedisce la perdita del diritto di agire, perché il semestre dell’art. 4 della legge n . 89 del 2001, deve ritenersi rispettato anche con la mera richiesta di mediazione.

Anche se la dichiarazione di illegittimità costituzionale[14] ha escluso la obbligatorietà della mediazione in ogni controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili e se la mediazione non costituisce più condizione di proponibilità della domanda, resta fermo l’effetto della istanza di mediazione d’interruzione della prescrizione e di impedimento per una sola volta della decadenza dal diritto di agire per equa riparazione, essendo rimasta ferma l’applicazione del decreto, che non è stato dichiarato in contrasto con la carta costituzionale ed è coerente agli intenti deflattivi del contenzioso giudiziario della disciplina legale della mediazione stessa.

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione si sono pronunciate in merito a una vertenza avente ad oggetto la mediazione su domanda di equo indennizzo per durata irragionevole del processo.

Il sesto comma dell’art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010, è stato implicitamente ritenuto legittimo dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, che individua quali degli altri commi della stessa norma e degli altri articoli del D.Lgs. n. 28 del 2012 sono in contrasto con la carta fondamentale per eccesso di delega.

La pronuncia del giudice delle leggi lascia ferma la disposizione del sesto comma dell’art. 5 del decreto legislativo sulla mediazione, per la quale l’ istanza di mediazione interrompe la prescrizione e impedisce che possa operare “per una sola volta” la decadenza di sei mesi per proporre l’azione di equo indennizzo, facendo decorrere un altro termine semestrale per agire, a decorrere dalla data di comunicazione del verbale di chiusura della mediazione ex art. 11 dello stesso decreto legislativo.

Un altro termine di sei mesi comincia a decorrere dal deposito del verbale negativo di conciliazione, per cui la mera comunicazione della domanda di mediazione alle altre parti, da sola e per una sola volta, impedisce la decadenza dell’art. 4, L. n. 89 del 2001, ai sensi dell’art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 28 del 2010.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale del primo comma del citato art. 5 del decreto legislativo del 2010 sulla mediazione c.d. obbligatoria, in applicazione dell’art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, ha modificato la disciplina dell’istituto di conciliazione stragiudiziale di cui al D.Lgs. n. 28 del 2010, escludendo che la mediazione costituisca nelle azioni di cui a quel comma in contrasto con la Costituzione, condizione di proponibilità della domanda.

Si pone il problema se la conclusione negativa di una procedura di mediazione di natura facoltativa e che ormai non costituisce più condizione di procedibilità della domanda, possa ancora incidere sulla prescrizione, interrompendola, come prevede l’art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 28 del 2010, così parificando la domanda di mediazione a quella introduttiva dell’azione di equa riparazione.

La lettera della legge impone una risposta affermativa su tale questione, perché l’istanza di mediazione interrompe la prescrizione del diritto per cui si tenta la conciliazione, così come ogni azione a tutela di esso, anche se per l’equa riparazione la prescrizione può decorrere solo se non vi è stata decadenza, come poi sarà chiarito.

In ordine alla decadenza, l’istanza di mediazione ha effetti solo limitati rispetto a quelli della domanda giudiziale che osta in via definitiva al venir meno del diritto di agire.

Essa infatti impedisce “per una sola volta” la decadenza e consente la proposizione di una nuova domanda nell ‘ulteriore nuovo termine semestrale decadenziale di cui al sesto comma dell’art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010.

E’ venuta meno la natura di “condizione dell’azione” che l’incostituzionale 1° comma dell’art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010 riconosceva all’attività di mediazione in rapporto alle controversie in detta norma allora espressamente indicate.

Peraltro la mediazione, pur essendo facoltativa, si collega ormai ad una attività che, se non è più indispensabile alla proponibilità della domanda, comporta l’affermazione da chi la chiede del suo diritto ad agire a tutela di diritti sui quali tenta la conciliazione, per cui resta ferma la disciplina del sesto comma dell’art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010, anche circa la mancata decadenza dal diritto di agire “per una sola volta”, a causa dell’istanza di mediazione per ottenere l’equa riparazione, che ha effetto interruttivo della durata della prescrizione nei sensi già indicati, come se si trattasse dell’esercizio del diritto prescrivibile.

La natura non più obbligatoria della mediazione nella fase preliminare delle azioni civili e commerciali elencate nell’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28 del 2010, è incompatibile con la natura di “condizione dell’azione” della mediazione stessa, come rilevato dalla stessa Corte Costituzionale nella Sent. n. 272 del 2012, la quale, dichiarando illegittima tale obbligatorietà della mediazione nei casi indicati nella norma ritenuta in contrasto con la legge fondamentale, comunque supera la natura di condizione dell’azione della mediazione stessa.

Inoltre, con una recentissima sentenza la Corte di Cassazione ha statuito che ” anche se la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5 primo comma del D.Lgs. n. 28 del 2010, di cui alla sentenza del 6 dicembre 2012 n. 272 della Corte Costituzionale ha escluso la obbligatorietà della mediazione in ogni controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili e se la mediazione non costituisce più condizione di proponibilità della domanda, resta fermo l’effetto della istanza di mediazione d’interruzione della prescrizione e di impedimento per una sola volta della decadenza dal diritto di agire per equa riparazione, essendo rimasta ferma l’applicazione del sesto comma dell’art. 5 del D. Lgs. n. 28 del 2010, che non è stato dichiarato in contrasto con la carta costituzionale ed è coerente agli intenti deflattivi del contenzioso giudiziario della disciplina legale della mediazione stessa”[15]

Conclusioni

Secondo le concordi previsioni dell’art. 6 della CEDU, dell’art. 111 della Costituzione italiana e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è, quindi, prioritaria e centrale in tema di giustizia, la realizzazione della ragionevole durata dei processi.

Il processo, per essere equo e rispondere alle esigenze e standars europei,  deve avere durata “ragionevole”, tale da portersi definire giusto.

L’obiettivo perseguito dalla giurisprudenza di Strasburgo non è quello di una giustizia sommaria, ma semplicemente tempestiva, posto che l’art 6 CEDU mira a preservare gli interessi della difesa e di buona amministrazione  della giustizia.

In Italia, per contenere la durata dei processi entro limiti ragionevoli, imposti dalla Convenzione, occorre una collaborazione tra tutti gli organi facenti parte dell’apparato giustizia, nella speranza che una tale interazione possa ridurre l’esposizione a possibili condanne dell’Italia nello scenario internazionale.

E’ la stessa Corte Europea ad evidenziare come la legge Pinto comporti enormi esborsi di denaro a cui l’Italia non riesce a far fronte, per la molteplicità delle richieste di risarcimenti, nonché il ritardo della giustizia, dovuto, appunto, ai ricorsi per l’equa riparzione.

Paradossalmente l’inflazione dei ricorsi ex legge Pinto viene, inoltre, a costituire una delle principali cause della dilatazione dei tempi di decisione da parte delle Corti d’appello e della Cassazione.

In Italia sensibili diminuzioni del flusso in entrata della domanda di giustizia si attendono dalla mediazione, il nuovo strumento di risoluzione alternativa delle controversie civili e commerciali. Si tratta di un’importante riforma che introduce per la prima volta, nel nostro sistema giuridico, un effettivo strumento alternativo alla risoluzione giudiziaria delle controversie. È una innovazione tra l’altro profilata dall’Europa e che introduce un diverso approccio culturale alla composizione delle liti.

La riduzione dei tempi del processo italiano, nonché il ricorso a strumenti alternativi è sempre più  auspicabile, contribuendo ad evitare un aggravio di ricorsi dinanzi alla Corte europea dei diritti umani per violazione dell’art. 6 CEDU e, quindi, condanne risarcitorie a carico del nostro Paese.

 


[1] Legge 4 agosto 1955, n. 848, Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo

1952, in Gazzetta ufficiale, 24 settembre 1955, n. 221.

[2] DE STEFANO M., La lunghezza della durata dei processi in Italia condannata dalla Corte Europea dei

Diritti dell’Uomo, in Impresa, 2001, 12, p. 1900 ss.

[3] CONSOLO C., La improcrastinabile radicale riforma della Legge-Pinto, la nuova mediazione ex d.lgs. n. 28 del 2010 e l’esigenza del dialogo con il Consiglio d’Europa sul rapporto fra Repubblica italiana e art. 6 Cedu, in Corriere giuridico, 2010, 4, p. 425 ss. L’A. sottolinea che fin da quando è stata approvata, la c.d. Legge-Pinto ha sprigionato notevoli guasti per la giustizia in Italia, specie per quella civile, pesando finanche sul piano finanziario. L’effetto di quei meccanismi di processualizzazione municipale, cioè di dislocazione all’interno di (quasi ordinari) processi italiani, dell’accertamento della non ragionevole durata di moltissimi processi civili e della liquidazione dei conseguenti danni da risarcire, ha contribuito soltanto a rendere ancor più lento nella media, in tutti gli altri casi, il corso in appello del processo civile stesso, appesantendo di liti ragionieristiche e grame soprattutto le agende delle Corti di appello cui quel giudizio è devoluto.

[4] La soluzione indennizzatoria è peraltro vista con perplessità dalla stessa Corte europea dei diritti umani la quale – come ha ricordato in una sua Relazione del 2009 l’allora primo Presidente della Corte di cassazione, Vincenzo Carbone – sostiene che il miglior rimedio sia quello della prevenzione. Ciò perché il rimedio risarcitorio può indurre a provocare deliberatamente ulteriori ritardi per conseguire non più una vittoria ipotetica nel processo ma un titolo certo a richiedere il risarcimento del danno da irragionevole durata dello stesso. Cfr. ZAPPITELLI P., I processi lumaca costano 118 milioni, cit., p. 9.

[5] Legge 24 marzo 2001, n. 89, Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile, in Gazzetta ufficiale, Serie generale, 3 aprile 2001, n. 78

[6] Il problema della reale efficacia del rimedio interno era stato posto già a partire dalla prima Relazione annuale sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano, presentata dal Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. Cfr. DE STEFANO M., Buona la prima relazione del Governo al Parlamento Italiano sulle pronunce della Corte di Strasburgo

[7] “Relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2009″ del Primo Presidente della Corte di Cassazione

[8] CASTELLANETA M., Giudizi lenti, carenza di risorse e vuoti d’organico: la vita quotidiana ai tempi del collasso degli uffici, in Guida al diritto, 12 febbraio 2011, p. 16 ss. L’A. evidenzia come l’entrata in vigore della legge Pinto ha prodotto un effetto paradossale, perché sui giudici è piombato un ulteriore carico di lavoro e un consequenziale rallentamento nel funzionamento della giustizia. Non solo. Questo rimedio non è un rimedio, perché, in realtà è una sorta di resa della giustizia che riconosce i ritardi e indennizza le vittime e non ha nessun elemento per consentire un’effettiva accelerazione dei processi, ma interviene solo ex post, causa ormai altre condanne dinanzi alla Corte europea. Questo perché ai ritardi dei processi si aggiungono i tempi lunghi nella liquidazione degli indennizzi dovuti alle vittime con conseguente aggravio di lavoro anche per gli uffici giudiziari di primo grado cui è affidata la trattazione delle procedure esecutive.

[9] Come si legge nella Relazione del Primo presidente della Corte di Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011, desta preoccupazione il dato, in crescita, dellapendenza dei giudizi di equa riparazione per violazione deltermine ragionevoledi durata del processo, promossi ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, gravanti in unico grado sulle Corti d’appello, che ha raggiunto nel 2011 il livello di 53.138 procedimenti (nel 2010 erano 44.101).

[10] La Corte d’appello di Reggio Calabria, con ordinanza del 4 giugno 2013, ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle nuove disposizioni introdotte alla legge n. 89 del 2001, in materia di indennizzo a titolo di equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, dall’art. 55 del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012, in vigore dal 12 agosto 2012. E’ stato sottoposto al giudizio della Corte costituzionale l’art. 2-bis, nella parte in cui “limita la misura dell’indennizzo, al valore del diritto accertato senza alcuna specificazione o limite, comportando l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente”.Con riferimento alla previgente disciplina il giudice remittente evidenzia che, anche in base alla giurisprudenza della Cassazione, il procedimento presupposto non aveva alcuna incidenza sull’accertamento del diritto all’equa riparazione che veniva riconosciuto alle parti del processo indipendentemente dall’esito e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio. Il censurato art. 2-bis pone, invece, uno stretto legame tra giudizio presupposto ed equa riparazione, nella parte in cui al comma 3 prevede che la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.A giudizio del remittente, quindi, l’esito almeno in parte vittorioso del giudizio presupposto condizionerebbe l’accoglibilità della domanda di equa riparazione, in violazione dell’art. 117, primo comma Cost., in relazione alla violazione del’art. 6 della CEDU sul diritto all’equo processo, come interpretato dalla Corte Europea che ha sempre considerato l’irrilevanza della soccombenza del ricorrente ai fini dell’equa soddisfazione, in ragione del rilievo che la parte, indipendentemente dall’esito della causa, ha comunque subitoun danno durante il lungo periodo che ha preceduto la definitiva decisione (cfr. sentenza Gagliano Giorgi c. Italia 6.3.2012). con la quale la Corte ha accordato la somma forfettaria di euro 500 a titolo di danno morale subito dal ricorrente a causa dell’irragionevole durata della proceduraPinto pur non rinvenendo violazione deldiritto ad un processo entro un termine ragionevole in assenza di un pregiudizio rilevante come conseguenza della violazione). Viene evidenziato un ulteriore profilo di illegittimità costituzionalità, per irragionevolezza del trattamento diseguale, nell’ipotesi in cui sia la parte soccombente e convenuta nel giudizio presupposto a proporre domanda di equa riparazione rispetto al caso di soccombenza della parte attrice nel giudizio presupposto, ove a richiedere l’indennizzo fosse la parte convenuta, vincitrice in quel giudizio, nei confronti della quale non varrebbe il limite censurato.

[11] GHIRGA M.F., Strumenti alternativi di risoluzione della lite: fuga dal processo o dal diritto? (Riflessioni sulla mediazione in occasione della pubblicazione della Direttiva 2008/52/CE), in Rivista di diritto processuale, 2009, p. 357 ss.; MINERVINI E., La direttiva europea sulla conciliazione in materia civile e commerciale, in Contratto e impresa – Europa, 2009, p. 41 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA E., La nuova mediazione nella prospettiva europea: note a prima lettura, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2010, spec. 658 ss.; DITTRICH L., Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in Rivista di diritto processuale, 2010, p. 578 ss.

[12] Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre 1999. Già nel 1999 l’Unione Europea aveva invitato gli Stati membri ad istituire procedure stragiudiziali di soluzione delle controversie

[13] Francesco Furnari, La Nuova Legge Pinto. Aggiornata al “Decreto Sviluppo”, pagg 43-44

[14] Corte Costituzionale , sentenza 06.12.2012 n° 272 , G.U. 12.12.2012

[15] Cassazione SS.UU civile del 22 luglio 2013, n.17781 “Deve quindi accogliersi il primo motivo del ricorso in base al seguente principio di diritto: “anche se la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28 del 2010, di cui alla sentenza del 6 dicembre 2012 n. 272 della Corte Costituzionale ha escluso la obbligatorietà della mediazione in ogni controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili e se la mediazione non costituisce più condizione di proponibilità della domanda, resta fermo l’effetto della istanza di mediazione d’interruzione della prescrizione e di impedimento per una sola volta della decadenza dal diritto di agire per equa riparazione, essendo rimastaferma l’applicazione del sesto comma dell’art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010, che non è stato dichiarato in contrasto con a carta costituzionale ed è coerente agli intenti deflattivi del contenzioso giudiziario della disciplina legale della mediazione stessa”. Nessun rilievo può avere sulla soluzione adottata la mancata comunicazione al Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 5, L. n. 89 del 2001 della intervenuta conciliazione stragiudiziale della vertenza sull’equo indennizzo, potendo il Ministro comunque chiedere che gli sia data notizia di ogni mediazione per agire eventualmente anche in sede disciplinare per eventuali comportamenti del magistrato, che abbia determinato l’istanza di mediazione.L’impianto complessivo del D.Lgs. n. 28 del 2010, anche se con incidenza ridotta, resta teso alla deflazione delle controversie giudiziarie, anche nell’interpretazione letterale della normativa sulla mediazione, restando ferma la decadenza prevista del diritto di agire per decorso del termine semestrale dalla sentenza definitiva, cui osta, per una sola volta, la domanda di mediazione di cui al D.Lgs. n. 28 del 2010. Il primo motivo di ricorso è quindi fondato e da accogliere e il decreto impugnato deve essere cassato. Infine si prospetta la non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lett a), L. n. 89 del 2001, per la scelta normativa di limitare il danno al solo periodo eccedente la durata ragionevole del processo in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con l’art. 117 Cost., ma la questione è di certo irrilevante in questa sede, anche se va osservato che la stessa C.E.D.U. esclude ogni suo potere di intervento in ordine al tipo e ai modi dei rimedi interni predisposti contro la durata eccessiva dei processi, potendo intervenire solo in difetto di ogni rimedio (C.E.D.U. 22 dicembre 2010, su ricorso n. 45867/07).

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